L’obbligo di utilizzo di pesticidi per il controllo della xylella fastidiosa in Puglia è un rischio inaccettabile

 
Nonostante la Puglia sia al quarto posto tra le regioni italiane per consumo di pesticidi vi è una grave carenza di controlli.
L’ultimo rapporto nazionale ISPRA sulla concentrazione di pesticidi nelle acque superficiali e profonde (anno 2018) ha mostrato che in Puglia si controlla solo la metà di pesticidi rispetto alla media nazionale, con una bassissima densità di punti di ricerca. I controlli sui residui di pesticidi negli alimenti non hanno mai considerato alcune tra le sostanze più utilizzate e più pericolose (in primis il diserbante glifosato), non sono aggiornati, né omogenei su tutto il territorio regionale. Nonostante questi limiti, i pochi risultati disponibili (ARPA Puglia) hanno in passato dimostrato la presenza di pesticidi nel 73% dei campioni di frutta esaminati e in circa la metà dei campioni di ortaggi, legumi e vino. Tra il 2012 e il 2014, inoltre, è aumentata la percentuale di campioni con presenza simultanea di più pesticidi (sino a 15 differenti sostanze tossiche) in un unico campione.

Numerosissime evidenze scientifiche hanno chiaramente illustrato come l’uso di pesticidi aumenti il rischio sanitario negli utilizzatori professionali (agricoltori), nei loro figli, in chi vive in prossimità di campi trattati e in chi assume alimenti contaminati.

I limiti di legge non appaiono adeguati a tutelare efficacemente la salute umana principalmente perché non considerano gli effetti cumulativi dei pesticidi (coesistenza di differenti pesticidi in singoli alimenti e introduzione combinata di pesticidi diversi con differenti tipologie alimentari), delle interazioni dei pesticidi con altri inquinanti e della diversa suscettibilità individuale legata all’esistenza di particolari polimorfismi genici, all’età (ad es. maggiore suscettibilità nei bambini), a particolari condizioni fisiologiche (ad es. gravidanza, peso corporeo) o patologiche (ad es. patologie cronico-degenerative). Infine, i limiti di legge sono continuamente rivisti al ribasso (sino spesso ad arrivare a proibire alcune di queste sostanze), in seguito all’evoluzione della ricerca scientifica. Questo comporta, inevitabilmente, che il ritardo tra la pubblicazione delle evidenze scientifiche e il momento in cui queste sono recepite dalla normativa causi periodi molto prolungati (a volte decenni) di inaccettabile rischio e danno sanitario a carico degli esposti.

In questo contesto, il recente “Decreto Martina” (“Misure di emergenza per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione di Xylella fastidiosa nel territorio della Repubblica Italiana”, GU del 6 aprile 2018) ha disposto in tutta la Puglia meridionale (dai confini della provincia di Bari a Leuca) l’obbligo di utilizzo di alcuni pericolosi pesticidi insieme ad altre misure di contrasto alla xylella fastidiosa.

In particolare, il decreto obbliga all’uso di prodotti chimici tra Maggio e Dicembre, indicando in maniera specifica e preferenziale due tra le più pericolose classi di pesticidi: piretroidi e neonicotinoidi.

Uno dei due piretroidi indicati dal decreto, la lambda cialotrina, è dannosa per gli insetti utili e la FAO sconsiglia di impiegarla per usi agricoli. In studi animali ha mostrato avere tossicità per lo sperma e causare infertilità ed embrioni anomali. Negli uomini si sospetta abbia attività di interferenza con alcuni sistemi ormonali. Il secondo dei due piretroidi indicati nel decreto Martina, la deltametrina, è tra le sostanze tossiche più studiate e con il maggior numero di evidenze negative in termini ambientali e sanitari (sia negli animali che nell’uomo), anche per le sue particolari capacità di accumulo e per le interazioni negative con altri pesticidi (in primis organofosforici).

Nei bambini, in particolare, solidi studi epidemiologici hanno associato la presenza di metaboliti della deltametrina nelle urine ad alterazioni comportamentali e cognitive, a ritardi nello sviluppo neurologico, a riduzione della funzionalità respiratoria.

I neonicotinoidi sono in grado di contaminare suolo, falde acquifere, vegetali, latte bovino e umano. Concentrazioni variabili di neonicotinoidi sono state dosate nel sangue e nelle urine di esseri umani di qualunque età (bambini compresi), che sono principalmente esposti attraverso la contaminazione degli alimenti. Queste sostanze sono anche in grado, nei mammiferi, di superare la barriera placentare, generando effetti tossici su embrioni e feti.

Per gli effetti tossici, letali e subletali sugli anfibi, sugli uccelli e sulle api, i neonicotinoidi sono stati definiti dall’EFSA (l’agenzia per la sicurezza alimentare europea) “inaccettabili” e recentemente (giugno 2018) un gruppo di 233 autorevoli scienziati di tutto il mondo ha pubblicato sulla rivista internazionale Science un appello con il quale si chiede non solo di riconsiderare l’uso dei neonicotinoidi alla luce dei loro pericolosi effetti negativi ecologici, ma anche di prevenire le registrazioni di simili pericolose sostanze chimiche in futuro.

In questo momento la Comunità Europea autorizza l’uso di soli 5 neonicotinoidi e, per tre di questi, l’uso è stato recentemente ristretto ai soli ambienti chiusi, a causa degli effetti negativi sugli insetti utili (soprattutto api). Una delle sostanze oggetto di restrizione dalla CE, l’imidacloprid, è tra quelle previste dal decreto Martina per l’utilizzo sugli ulivi in campo aperto. Indipendentemente dagli effetti ecologici negativi, numerosi studi hanno dimostrato la pericolosità dell’imidacloprid sia negli animali che nell’uomo.

Oltre all’imidacloprid, il secondo dei due neonicotinoidi citati come preferenziali dal decreto Martina è l’acetamiprid, una sostanza per la quale l’EFSA (l’agenzia europea per la sicurezza alimentare) ha recentemente certificato l’esistenza di numerose carenze informative (“data gaps”) e, di conseguenza, il regolamento UE/2018/113 impone agli Stati membri “particolare attenzione” per “rischio per gli organismi acquatici, le api e altri artropodi non bersaglio”, per “rischio per gli uccelli e i mammiferi”, per “rischio per i consumatori” e per “rischio per gli operatori”.

Studi sperimentali su modelli animali hanno dimostrato che l’acetamiprid è in grado di causare, anche per esposizione a concentrazioni molto basse, stress ossidativo cellulare, alterazioni dell’espressione genica, interferenza endocrina, tossicità embrionale, immunitaria, epatica, spermatica, danni della riproduzione e, soprattutto, danni neurologici.

Nell’uomo, sono presenti in letteratura internazionale quattro studi caso-controllo che descrivono associazioni tra esposizione cronica a imidacloprid e acetamiprid e aumentato rischio di alterazioni dello sviluppo come malformazioni cardiache e cerebrali, disturbi dello spettro autistico, alterazioni mnesiche e motorie.

Le probabilità di rischio sanitario da esposizione alimentare a neonicotinoidi (e, più in generale, a tutti i pesticidi) sono più alte nei bambini a causa del possibile inizio dell’esposizione durante la vita intrauterina, dello sviluppo in corso, della maggiore suscettibilità e della maggiore facilità, rispetto agli adulti, nel raggiungere le soglie di rischio a parità di concentrazione di pesticidi negli alimenti. Ad esempio, la ARfD (“acute reference dose”, la dose acuta di riferimento, quantità di sostanza che può essere ingerita in breve periodo senza rischio apprezzabile per la salute) dell’acetamiprid è, secondo EFSA, 0,025 mg/kg. Questo significa che per superare questa soglia un uomo di 70 kg deve assumere 1,75 mg al giorno di acetamiprid, un bambino di 10 kg ne deve assumere 0,25mg. Il raggiungimento di questa soglia è facilitato dal suo esteso utilizzo per più prodotti agricoli, dalle abitudini alimentari caratteristiche della dieta mediterranea, dalle concentrazioni di acetamiprid riscontrate (già senza obbligo di utilizzo) da EFSA nelle olive coltivate in Europa meridionale (sino a 1,3 mg/kg) e dagli eccessi di contaminazione da acetamiprid rilevati da EFSA anche in altri vegetali (scarola, mela, spinaci, pera, lattuga, cavoli, sedano, barbabietole, pesche).

Anche a voler completamente ignorare i possibili rischi sanitari legati all’obbligo di utilizzo di piretroidi e neonicotinoidi imposto dal Decreto Martina, la vicenda è resa paradossale dalla costatazione che questo comporterà costi considerevoli per gli agricoltori, senza avere alcun vantaggio concreto in termini di limitazione della diffusione della xylella fastidiosa.

Il decreto, infatti, fonda l’obbligo di utilizzo dei pesticidi e la selezione delle sostanze chimiche citate non su consolidate evidenze scientifiche a supporto dell’utilità di tale pratica per il controllo della diffusione di xylella fastidiosa (al momento inesistenti) ma sui risultati di una comunicazione congressuale (citata nello stesso Decreto) che dimostra l’efficacia nel breve termine di queste sostanze nell’abbattimento della “sputacchina” (P. spumarius, l’insetto vettore della xylella) ma anche, secondo gli stessi Autori, la “limitata persistenza … delle molecole saggiate” e afferma nelle conclusioni che “Tale aspetto richiede un approfondimento di indagine, RAPPRESENTANDO UN FORTE LIMITE PER UN ADEGUATO CONTROLLO DEL P. SPUMARIUS”.

Appare semplicistico e ingenuo ritenere possibile una completa e persistente eliminazione dell’insetto vettore in un’area geografica così estesa (nella quale, tra l’altro, la xylella è ormai endemica) e che questo avvenga senza gravi effetti collaterali soprattutto in termini di danni agli insetti utili e alla biodiversità.

Al contrario, pur senza voler entrare nella diatriba sul ruolo causale tra xylella e CODIRO (il complesso da disseccamento rapido dell’ulivo), è stato suggerito da eminenti studiosi che proprio la biodiversità è uno dei fattori protettivi contro la diffusione di epidemie da xylella, che queste, in genere, si instaurano per la coesistenza di un complesso di fattori (alcuni dei quali non controllabili) e che, in base ad esperienze precedenti, l’uso di insetticidi non appare giustificabile per gli alti costi, per la bassa efficacia, per i danni all’ecosistema e per la possibile comparsa di resistenze che renderebbero quelle stesse sostanze rapidamente inefficaci per il controllo della sputacchina, ma non in termini di conseguenze ambientali e sanitarie.

Alla luce delle considerazioni esposte non sembra esserci alternativa al lasciarsi guidare dalle più solide evidenze scientifiche disponibili e da un realistico bilancio tra i pro e i contro, puntando su un modello agricolo alternativo all’uso della chimica, l’unico che si possa definire sostenibile sia in termini ambientali che sanitari e l’unico a poter alimentare, anche in Puglia, serie speranze di recupero dei danni generati da decenni di cattive pratiche.
 

Agostino Di Ciaula
International Society of Doctors for Environment (ISDE)

 


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